Lascio un Pd che ha rialzato la testa

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di Luca Landò – L’Unità

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Non chiamatelo traghetto. Perché in sette mesi di navigazione il Pd non si è limitato a passare da una sponda all’altra, da una segreteria che non c’era più a quella che ci sarà questa sera dopo il voto nei gazebo. «Se devo pensare a quanto è successo mi è difficile pensare a una normale traversata: la decadenza, il caso Cancellieri, la Stabilità, il caos dell’Imu e ora la sentenza della Consulta».  «In tutta franchezza credo che abbiamo incontrato acque piuttosto agitate per essere un viaggio di trasferimento», dice Guglielo Epifani che alle 20 di questa cederà il timone del partito al nuovo segretario e che in questa intervista fa un bilancio del suo incarico iniziato l’11 maggio scorso dopo le dimissioni di Bersani.
Non le piace il termine traghettatore?
«Il traghetto è una bella immagine, è come un ponte che unisce due rive. Se vuoi entrare nel futuro devi uscire dalla tua isola e questo richiede almeno un ponte o un traghetto. Però non credo di avere fatto solo il traghettatore».
 
Venerdì scorso nel presentare i novemila gazebo nei quali si voterà oggi ha parlato di «missione compiuta»: più Tom Cruise che traghettatore. Guidare il Pd in questi sette mesi è stato così difficile?
«Non è stato semplice, perché il Pd è un partito complesso e ha bisogno di riforme. Ma il punto è un altro: quando ho messo per la prima volta piede in queste stanze il partito era praticamente abbandonato. E la cosa che mi ha colpito di più. Dopo la tempesta delle votazioni sul presidente della Repubblica, le dimissioni improvvise di Bersani e quelle di tutta la segreteria avevano prodotto un vuoto».
Che Pd lascia al nuovo segretario?
«Un Pd che ha risollevato la testa. Abbiamo preso un partito lacerato, diviso e in caduta nei sondaggi: ora abbiamo un partito che in quei sondaggi è stabilmente al primo posto. E poi lascio un partito che ha vinto in tutte le elezioni amministrative importanti che si sono tenute quest’anno, segno che il legame con il territorio è tornato forte. Credo che in questo abbia pesato la scelta di schierare subito il partito accanto ai candidati che stavano affrontando una campagna di elezioni amministrative importanti, a partire da Roma».
Tornare a San Giovanni è stato un azzardo.
«In politica devi dare segnali forti. Piazza San Giovanni è una piazza simbolo della sinistra e del sindacato, non potevamo lasciare che diventasse un simbolo di Grillo, non scherziamo. Quando annunciai che saremmo andati a Piazza San Giovanni per sostenere Marino ci fu molto scetticismo. Invece fu una scelta giusta. La risalita del partito è iniziata anche da lì».
Anche sulla decadenza di Berlusconi il Pd ha preso una posizione netta ma non tutti erano d’accordo.
«Berlusconi ha ironizzato più volte sul fatto che pochi minuti dopo la sentenza della Corte io avessi subito dichiarato quale sarebbe stata la linea del partito dicendo, immediatamente, che le sentenze si rispettano, le leggi si applicano e che la giustizia è uguale per tutti. E quella è rimasta la scelta del partito fino al voto della decadenza. Non è stata una forzatura, come molti hanno ho scritto: è stato un modo semplice ma efficace per ristabilire il senso di uno Stato di diritto. E che altre soluzioni, meno limpide o immediate, non avrebbero consentito di riaffermare».
Insisto, non tutti hanno condiviso quella posizione.
«Una delle cose che ho imparato dall’attività sindacale, soprattutto negli ultimi anni di direzione della Cgil, è che un’organizzazione va diretta dando subito dei messaggi chiari al Paese e alla tua gente. Il giorno dopo una parte consistente del partito riteneva che avessi esagerato: non me lo venivano a dire, ma mi veniva riferito. Dopo una settimana non c’era più uno che osasse contraddire una scelta che era poi quella che il nostro popolo e direi tutti i democratici italiani si aspettavano».
Ha detto che il Pd ha bisogno di interventi, quali?
«L’elezione diretta del segretario, attraverso il voto degli iscritti e dei cittadini, è una caratteristica fondativa di questo partito. La capisco e la difendo però si tratta di una scelta non compiuta. Se hai un “segretario presidenziale” eletto dal popolo, ci vuole anche un parlamento che lo controbilanci. Che è poi quello che avviene nei sistemi a elezione diretta, ad esempio negli Stati Uniti. Nel Pd oggi manca una sede che controbilanci il potere del segretario. Vorrei essere chiaro: non voglio tornare indietro, sono per ribadire la scelta del segretario forte. Ma in qualsiasi ordinamento, non solo istituzionale ma anche di partito, a un mandato forte deve corrispondere una sede forte di controllo e discussione, quella che oggi manca. E vorrei che su questo il nuovo segretario, ma anche il popolo del Pd, ragionasse seriamente. Perché se non hai questa sede di controllo, come un piccolo parlamento del partito dove si discute e litiga ma poi si decide a maggioranza, finisce che spuntano le correnti. Ecco il punto: oggi a un segretario forte corrisponde il ruolo forte delle correnti. E questo ti rende meno credibile nei confronti dei tuoi stessi elettori».
Se parliamo di credibilità, la vicenda delle tessere gonfiate è in cima alla classifica.
«È stata la ferita più grande. Perché abbiamo subito gli eventi anziché gestirli. Ora bisogna fare due cose. La prima è che la campagna di tesseramento deve avere un giorno di inizio e uno di fine e questi non possono dipendere dalle contingenze politiche. Il tesseramento è un conto, i congressi, compresi quelli straordinari, un altro. L’altro punto è che i tesserati devono essere registrati in un album che viene chiuso quando finisce la campagna di tesseramento, non all’ultimo minuto prima del congresso. Insomma, quando inizia un congresso la lista degli iscritti al circolo deve essere già definita». 
Cosa succede al governo ora che il Pd avrà un nuovo segretario: si rafforza Letta o si torna presto al voto?
«Quando decidemmo di dar vita al governo delle larghe intese era evidente che la nostra presenza al governo aveva motivazioni del tutto diverse da quelle di Berlusconi. Per noi si trattava di sostenere, tenuto conto dei numeri in Parlamento, un governo che fosse al servizio del Paese in una fase drammatica di crisi; per Berlusconi era un governo di pacificazione, dove “pacificare” per lui significava solamente risolvere le sue pendenze giudiziarie. Da questo punto di vista la battaglia tra la nostra idea di governo e quella di Berlusconi l’abbiamo vinta noi: chi per mesi ci ha detto che avremmo fatto di tutto per salvare il Cavaliere, dovrebbe avere l’onestà di riconoscere che si era sbagliato».
E questo come influirà sul destino del governo?
«Oggi siamo in una seconda fase proprio perché quella contraddizione è stata superata con la divisione del centrodestra e la decadenza di Berlusconi. Il governo che abbiamo adesso non è una versione ridotta del governo precedente: la sua riduzione numerica è figlia di quella battaglia vinta e gli dà una identità, a noi più vicina, di governo di servizio. È una mutazione che ci carica di una maggiore responsabilità perché, nel bene e nel male, oggi il Pd viene identificato con il governo. Tutto questo però può avvenire a una sola condizione: che il governo cambi passo. Perché la crisi è ancora durissima, perché all’opposizione non c’è più solo Grillo ma anche Berlusconi e perché nel Paese ci sono ancora tanti populismi che cresceranno ancora. Se il governo vuole arrivare al 2015 deve fare un salto di qualità».
Crede sia necessario un rimpasto?
«Sono scelte che non spettano al partito ma al presidente del Consiglio e al presidente della Repubblica. Detto questo, penso che se vogliamo avere un governo più forte con un programma più definito, qualche elemento di rafforzamento della squadra del governo lo vedrei. Ma, ripeto, è una prerogativa che tocca ad altri».
Cosa metterebbe nella nuova agenda di Letta?
«Il nostro problema numero uno è far ripartire gli investimenti privati e pubblici: senza gli investimenti non c’è occupazione vera, non c’è salvezza delle imprese, non c’è futuro. Insisto: ci vogliono investimenti pubblici e privati».
Anche a costo di sforare il tetto del tre per cento?
«Oggi siamo nella situazione, assurda, che se avviene un’alluvione come quella della Sardegna non sappiamo dove prendere i soldi perché sforiamo i conti. Che è poi quello che sta avvenendo per la ricostruzione dell’Aquila. Abbiamo un patto di stabilità in cui neanche di fronte ai terremoti possiamo derogare. È un patto stupido, era stato detto. Dico di più: è un patto stupido e vigliacco».
Ha mai pensato a candidarsi anche lei alle primarie?
«Sarebbe stato un errore. Se mi fossi candidato da tre mesi sarei stato in campagna elettorale anch’io e il partito sarebbe stato senza guida nei passaggi delicati che abbiamo avuto, dalla decadenza fino alla legge di stabilità: avremmo avuto un partito senza leader ma con tanti candidati, un vero capolavoro».
Si è discusso molto dell’automatismo tra segretario e candidato premier ma nessuno ha ancora capito quale sia la soluzione definitiva. Qual è la sua opinione?
«In una logica bipolare stretta, rigorosamente bipartitica, l’automatismo è normale. Noi però abbiamo un sistema politico più mosso e non a caso l’automatismo lo abbiamo superato nei fatti. La cosa migliore, a mio parere, è che non ci siano automatismi di sorta. Il segretario del partito è il numero uno alla candidatura di premier ma non è il solo. Questo mi pare l’equilibrio giusto. Ma c’è un altro punto».
Quale?
«Questo è un partito che ha bisogno di cura, come un organismo vivente. Perché è un partito vero, fatto di tante cose: militanti, simpatizzanti, volontari, gente che ha abbandonato e che potrebbe tornare. Ed è l’unico partito non personale che abbiamo in Italia. Ma è un partito che va curato. E più lo vuoi cambiare, più gli devi prestare tempo, attenzione e cura. Questo chiunque verrà a sedersi qui lo dovrà tener presente».
Che succederà dopo la sentenza della Consulta sul Porcellum?
«Si scatenerà l’ordalia degli sfasciati: prima era solo Grillo ora arriveranno anche gli altri. Lo si vede già adesso: Parlamento illegittimo, scelte fiscali illegittime, nomine istituzionali illegittime. Non è così: la Corte costituzionale quando affida al Parlamento il compito di cambiare la legge riconosce la legittimità stessa del Parlamento. Il punto politico dunque non è se il Parlamento sia legittimo: è come fare per renderlo legittimo agli occhi di tutti gli italiani».
Fonte: L Unità