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ETTORE GUGLIELMO EPIFANI (LEU). Signor Presidente, signori del Governo, colleghe e colleghi, provo a fare qualche osservazione di premessa, prima di entrare nel merito di esame del decreto-legge, che come Aula ci accingiamo oggi a discutere e poi a votare.
Non c’è dubbio che il decreto-legge parta da due questioni sociali che sono particolarmente importanti. La prima, la necessità di una lotta alla povertà nel nostro Paese come centrale nelle politiche pubbliche e sociali dell’Italia. Noi dobbiamo ammettere il ritardo che ha il nostro Paese nel costruire e nell’aver costruito nel tempo politiche attente al fenomeno della povertà; e questo malgrado da decenni tanti studiosi, tante parti, tanti soggetti, interni ed esterni al nostro Paese, ci segnalavano come il limite del nostro welfare fosse proprio quello di non essere attento alle questioni della povertà. Naturalmente poi la crisi dal 2008 in poi ha fatto il resto, perché la povertà ha fatto in questi dieci anni un salto ulteriore rispetto alla condizione di tante persone che avevamo già come fattore endemico della condizione sociale di tante aree del nostro Paese. E in modo particolare – e qui forse si è prestata poca attenzione anche nel decreto-legge – le caratteristiche di questa povertà sono cambiate in questi dieci anni.
Ognuno di noi ha sempre associato l’idea del povero all’idea di una persona anziana: bene, tutte le statistiche, tutte, ci dicono che oggi il vero cuore della povertà sta esattamente tra i più giovani, sta tra i minori, sta tra le famiglie numerose, e questo è il nuovo nucleo e la nuova caratteristica della povertà in Italia. Aggiungo, altra cosa di cui nessuno di noi immaginava la portata: oggi si considera fattore emergente il cosiddetto lavoro povero, cioè persone soprattutto giovani che lavorano, dove in ragione delle modalità del lavoro, delle ore di lavoro, delle condizioni del lavoro, arrivano ad avere redditi così bassi che non li tutelano dal rischio di stare e non uscire dall’area della povertà.
La seconda esigenza da cui parte la riforma, anch’essa condivisibile, riguarda il bisogno di rendere meno rigido il sistema di pensionamento della legge cosiddetta Fornero. Qui ne abbiamo parlato, io ne vorrei parlare in termini responsabili ma seri: perché oggi è facile dire quello che non va nella legge cosiddetta Fornero, ma è altrettanto evidente che se ognuno di noi riflette su quel momento, su quella fase di storia economica e sociale del Paese, dove eravamo aggrediti su tutti i fronti e nel quale maturò la riforma Fornero, bisogna pure sapere che essa è figlia di un frutto particolare di una stagione politica.
Vuol dire che questo giustifica la legge cosiddetta Fornero? No, non la giustifica, perché anche a distanza di tempo si vede qual è la contraddizione tipica di quella riforma: è una riforma troppo rigida, rigida per la misura dell’innalzamento dell’età pensionabile, rigida perché pone situazioni uguali per condizioni diverse. Questo è il limite della legge cosiddetta Fornero! Quando noi facemmo – io lo ripeto sempre – negli anni Novanta le grandi riforme sul sistema previdenziale, prima come accordi tra le parti sociali poi in accordo con il Governo, noi ci premunivamo sempre di operare ogni innalzamento dell’età pensionabile con due criteri: il criterio della gradualità ed il criterio dell’equità. Aumentavi l’età, ma lo facevi gradatamente, in modo tale che potessi tu gestire al meglio le ricadute sociali di questo innalzamento dell’età. Voi non troverete in nessuno dei grandi avanzamenti di età introdotti negli anni Novanta questi salti, questi gradoni, queste cose per cui avevi persone che da un giorno all’altro si trovavano a dover lavorare, come è capitato a molte donne di alcune coorti di età, cinque o sei anni in più di quelli che non avresti immaginato il giorno prima.
E in secondo luogo introducevamo l’equità. C’erano sistemi previdenziali troppo favorevoli, altri sfavorevoli: cercavi di tenere assieme un principio di equità, perché nella logica di un sistema previdenziale pubblico le ragioni dell’equità non sono qualcosa che viene dopo, sono qualcosa che sostiene il senso della previdenza pubblica; se no tanto vale affidarsi all’assicurazione privata e risolvere per altra strada il problema della tutela del proprio futuro. Bene: con la legge cosiddetta Fornero neanche la questione dell’equità fu affrontata.
Non sono quindi queste le questioni che ci dividono rispetto al decreto-legge, perché i due campi sociali sono corretti, l’individuazione delle due priorità è corretta. Quello che ci divide sono altre cose. La prima, fino adesso non se n’è parlato: ma perché un aumento così considerevole (e ne do un giudizio positivo) di spesa sociale… Apro e chiudo la parentesi: non è la prima volta, caro sottosegretario, perché dobbiamo pur dire che nel precedente Governo vi fu un’operazione di oltre 10 miliardi decisa per l’aumento delle retribuzioni dei lavoratori tra 1.200 e 1.500 euro; 10 miliardi, grosso modo il costo dell’operazione che fate oggi. Quindi la cifra in sé è importante; ma perché l’avete finanziata col disavanzo? Perché? Non è una critica che rivolgo oggi: esattamente è la critica che vi abbiamo formulato durante la discussione della legge di bilancio. Perché un aumento della spesa corrente in disavanzo? Sapete in disavanzo cosa andava fatto e cosa bisogna fare?
Le spese per investimento! L’errore tragico che avete fatto con la legge di bilancio in autunno ce lo stiamo portando dietro; non crediate che il fatto di essere arrivati a zero come crescita di PIL è solo il frutto della congiuntura che rallentava. È il fatto che voi quella congiuntura che rallentava non l’avete voluta vedere e capire; vi siete illusi che così non fosse. Infatti se voi fosse stati consci, consapevoli della durata e della durezza di quel percorso, avreste voi dovuto mettere al centro un disavanzo forte e una politica straordinaria di investimenti pubblici: non solo le grandi opere ma tante piccole opere di messa in sicurezza del territorio, di messa in sicurezza delle nostre città, di messa in sicurezza delle nostre campagne, di messa in sicurezza delle nostre scuole, dei nostri edifici pubblici, delle nostre case. È quello che è mancato: io lo rimprovero. Un’operazione così si può fare ma si finanzia con altri modi, con la fiscalità generale, con un disavanzo. E quando oggi vedo che Tria presenta un piano straordinario per gli investimenti, la prima cosa che mi viene da dire è: ma perché oggi? Perché non l’hai fatta nell’autunno? Fra l’altro, se lo avessi fatto in autunno, il PIL magari non sarebbe arrivato così in basso, non avremmo avuto quell’incertezza, non avremmo avuto quello spread: avremmo avuto una situazione diversa e non è un capriccio, perché, se il PIL sceso non si riprende, quando arriveremo al prossimo autunno, fare la manovra di bilancio sarà un’impresa complicatissima e lo sapete. Ma questo è il frutto di tale scelta: per questo non sono convinto e non ho capito perché non avete fatto per tempo le operazioni che bisognava invece fare. Voglio adesso arrivare alle due proposte. Molte cose sono state dette, non le aggiungo. Condivido molte cose ma non ne condivido altre. La prima cosa che voglio dire riguarda l’intervento sul reddito di cittadinanza. Ripeto che ha una portata importante: quando tu dai soldi a tante famiglie che sono in situazione di bisogno, tu devi dire che è una scelta giusta, una cosa giusta, una cosa che andava fatta, una cosa che deve essere fatta, una cosa che va apprezzata. Ma, anche in questo caso, conveniva smontare il REI e mettersi dentro la nuova logica? Il limite del REI è che era stato fatto troppo tardi e con poche risorse ma aveva una sua base che dimostrava di funzionare. Si è smantellato il REI e si inserisce una nuova modalità che tiene assieme l’intervento sulla povertà con l’intervento dell’avviamento al lavoro. Le due cose insieme è facile comporle? Avendo sentito molte delle audizioni che ci sono state alla Camera, ne voglio citare due, che vengono però da due soggetti particolarmente autorevoli nel campo della lotta alla povertà. La Comunità di Sant’Egidio ci ha detto che è un intervento troppo lavorista: che ruolo ha la formazione, la scuola, i territori, l’assistenza sociale, il Terzo settore? E la CEI, che cosa ci ha detto? Facendo con queste modalità non si sottostima troppo la povertà delle famiglie numerose con tanti minori a carico? E non sono due osservazioni che andavano prese con più attenzione e con più rispetto? Io credo di sì. Io poi ne aggiungo un’altra: ma, secondo voi, è facile tenere insieme la dimensione familiare dell’intervento, che è il caposaldo della riforma che voi proponete, con la dimensione individuale delle scelte delle libertà personali? A me è capitato di dirlo su un paradosso che abbiamo cercato di evitare ma non ci siamo riusciti. Una famiglia ha diritto al reddito di cittadinanza; un padre o una madre di quella famiglia, che ha un figlio disabile che non può stare da solo, decide di licenziarsi per assistere il proprio figlio; bene, se fa questa scelta, la famiglia perde il reddito di cittadinanza. Vi pare una logica? Perché devo mettere un limite alla scelta individuale quando sono in ballo questioni di vicinanza a una situazione drammatica? Perché devo mettere il conflitto tra libertà individuale di chi vuole assistere il figlio invalido e la logica del reddito di cittadinanza che è puramente familiare? E guardate che questo dissidio, questo conflitto etico tra la scelta individuale e la dimensione familiare, noi lo ritroviamo in tanti piccoli passaggi pratici che renderanno complicata la gestione del processo. Non ci illudiamo, questa è una delle contraddizioni.
Io lo so che non è facile, perché la dimensione familiare della povertà è un dato vero, ma, attenzione, quando tu componi la dimensione familiare dell’assistenza e del sostegno alla scelta individuale, alla libertà individuale, non sempre questo ti porta poi ad avere le soluzioni migliori e spesso le soluzioni che trovi, come ho detto in Commissione, sono soluzioni da Stato etico dove qualcuno decide per te o qualcuno decide mettendoti in conflitto tra la tua coscienza e la situazione e la condizione di tutti i tuoi familiari. Questo è un limite forte che vedo nel processo di riforma. E la stessa cosa mi viene da dire per altri aspetti: perché ci vogliono dieci anni di residenza per accedere al reddito di cittadinanza? Perché bisogna condannare qualcuno a questa, per così dire, espiazione? Il REI prevedeva due anni di residenza. Noi abbiamo proposto cinque; tanto welfare locale prevede cinque anni; non si poteva arrivare a cinque anni tutti assieme? Perché dieci anni era intoccabile? È un simbolo, un simbolo ideologico di esclusione? Ma ha un senso concreto, ha un senso reale?
E ancora avviamento al lavoro o avviamento a un processo di inclusione sociale? Chi lo decide? Come lo si decide? Chi accompagna queste persone al lavoro? A un certo punto eravamo in una situazione, voi lo sapete, in cui l’80 per cento di coloro che si dovranno dedicare a questo compito difficile erano tutti precari: precari i nuovi navigators, precari gran parte dei lavoratori dell’ANPAL, precari gran parte delle persone che dovevano essere assunte e ancora non lo sono state. Quindi, da questo punto di vista, vedo qui una parte consistente dei problemi di gestione di un processo come questo, per non parlare poi del lavoro gratuito fatto in quel modo, di affitti che sono considerati uguali sia che tu stai a Milano sia che tu vivi in un paese del Mezzogiorno: è evidente che sono piccoli aspetti che non inficiano naturalmente il valore di sostenere chi ha bisogno ma che porteranno a problemi e contenziosi, secondo me, di grande questione.
La seconda cosa che voglio dire riguarda le pensioni e sul tema voglio essere un po’ più preciso. Noi abbiamo fatto di quota 100 una specie di simbolo simulacro ma guardate che quota 100 è un riferimento molto arbitrario: è arbitrario nel numero ed è arbitrario negli addendi. Perché 100 e non 102? Perché 100 e non 98? Si assume 100. E perché 100 fatto da 62 e 38 e non da 60 e 40? O perché non da 65 e 35? Quindi si tratta, come dire, di una convenzione che si assume. Bene, che cosa vuol dire tale convenzione che si assume? Che resta fuori, da una scelta anche qui impegnativa e importante nei costi, una scelta di fondo che avesse e che abbia un senso perché un’operazione fatta in questo modo poteva essere realizzata facendo due scelte: aiutare i precoci, quelli che aiutammo negli anni Novanta, chi è andato a lavorare a 15 anni. Aiutare i precoci con una logica che aiuti coloro che hanno bruciato la loro vita giovane al lavoro. Oppure, l’altra scelta, che io preferisco di gran lunga, ossia aiutare coloro che sono arrivati vicino all’età di vecchiaia e non hanno contributi perché hanno carriere discontinue, perché in edilizia il lavoro è discontinuo, perché nella stagionalità il lavoro è discontinuo, perché nei campi il lavoro è discontinuo, perché il lavoro delle donne è discontinuo e voi troverete non a caso periodi più bassi di contribuzione nei lavori più pesanti: quelli andavano sostenuti, quella era la scelta da fare, non una quota 100 che sceglie un triennio e, all’interno di esso, le persone sono facilitate e le altre persone restano al palo con i problemi che vi sono stati ricordati. Infatti, se dopo i tre anni di sperimentazione, non ci fossero più risorse o non ci fossero più questioni, noi creeremmo un gradone di 5 anni tra chi è nato in un mese o chi è nato il mese dopo; creeremmo di nuovo cioè condizioni di una disuguaglianza che cresce, non che si riduce: questo è quanto io critico dell’impianto.
Si poteva fare la scelta dei precoci oppure – io preferivo l’altra – quella di chi non ce la fa a 65 anni a salire su un’impalcatura ed è costretto a farlo ma questa è la scelta che andava fatta e questa scelta non si è fatta e qui trova un limite di fondo alla scelta, peraltro.
D’altra parte, poi, tutto si tiene: bene aver bloccato l’innalzamento per l’aspettativa di vita, ma dove l’avete bloccata? Su tutti? Solo sull’anzianità, non sulla vecchiaia, è ovvio, così che, quello che già è più sfigato perché fa il lavoro peggiore, il lavoro più pesante e non ha i contributi, si trova pure ad avere l’innalzamento per l’aspettativa di vita che cresce. Vi rendete conto del perché dico che non è equa e invece era equa e ragionevole un’altra scelta, che non si è voluta formulare? Quindi queste sono le critiche che io rivolgo a questo impianto. Guardate che non sono critiche pretestuose, sono critiche oneste. Ho già riconosciuto il valore della scelta che è stata fatta, l’importanza delle risorse che si mettono, del fatto di assumere un problema sociale come problema di attenzione, ma è evidente che queste questioni poi saranno destinate a riproporsi. E poi, naturalmente, vorrei legare anche una questione, perché adesso bisogna tra di noi essere chiari: perché si fa una scelta di sostenere la povertà? Che vuol dire? Io credo che voglia dire – e penso che conveniamo – distribuire delle risorse nei confronti di chi ha meno, togliere qualcosa – sia pure attraverso il disavanzo – a tutti e finanziare chi ha meno, quindi dai più ai meno, ma perché, con l’autonomia differenziata, volete fare negli stessi giorni esattamente il contrario? Perché con l’autonomia differenziata volete prendere 10 miliardi dalle regioni più arretrate e spostarli alle regioni più virtuose? Perché nell’autonomia differenziata si fa esattamente il contrario: si dà di più a chi è più ricco e si dà di meno a chi è più povero? Come mai sul terreno sociale si fa una scelta e sul terreno istituzionale la scelta opposta? C’è una logica che tiene assieme queste due cose o mi sbaglio? Mi sbaglio? Quindi, anche da questo punto di vista bisogna essere coerenti.
Infine, il metodo seguito. Si è lavorato in Commissione, è vero, è stato un lavoro serio, difficile, ma non si poteva prendere qualche emendamento con più attenzione? Se un settore intero, quello più colpito dalla crisi, il settore delle costruzioni, fa presente al Parlamento che è in condizione di avere una flessibilità di età pensionabile per quei muratori che a 65 anni non ce la fanno salire sull’impalcatura, perché abbiamo detto di no a quell’emendamento, dopo che tutti erano d’accordo in Commissione? Perché? C’è un motivo? Tutti d’accordo a chiederlo, e in Commissione è stato bocciato. Ha un senso? Si dice: costa qualcosa. Ma come costa qualcosa! Qui hai una cosa che costa 6 miliardi e quel qualcosa non si poteva fare, per persone che sono le più sfigate? Guardate che non ha senso, come non ha avuto senso quella roba sui disabili di cui parlavo prima. Se una madre si licenzia per assistere un bambino che non ce la fa a star da solo, deve togliere il reddito di cittadinanza a tutta la famiglia? Perché non è corretta? Sono piccole cose, ma spesso la qualità e la cifra delle cose sta esattamente in questi particolari, e questi particolari dimostrano che non si è voluto ascoltare quelle proposte che servivano a migliorare un testo e a far sì che un testo su cui ci possono essere opinioni diverse fosse un testo un po’ più valutato con attenzione da parte di tutti. Queste sono le cose che volevo dire, spero di essere stato chiaro nei punti di valutazione, nei punti di critica e nell’indicare che cosa non va. Naturalmente spero poi che le cose funzionino, non è che spero che le cose non funzionino, ma attenzione – e questo deve valere per tutto, anche nel futuro -, quando tu parli di temi sociali, di condizioni delle persone, attenzione alle promesse che si fanno, alla possibilità di mantenerle e alla capacità di soddisfare quel bisogno che tu hai alzato, perché se poi le cose non dovessero andare nel senso positivo indicato, allora a quel punto la disgregazione sociale aumenta, la disperazione sociale aumenta e le tensioni sociali pure. Io non vorrei che una cosa nata per far bene poi finisca in realtà per creare contraddizioni sociali, delle quali il nostro Paese non ha assolutamente bisogno.