Intervista ad Alessandro Parodi su Open sul caso Whirlpool.
Il ministro del Lavoro Luigi Di Maio, così sembra, batte i pugni sul tavolo della trattativa con Whirlpool. Per evitare la chiusura dello stabilimento offre all’azienda otto milioni di incentivi, ma il suo è un ultimatum: entro una settimana i manager devono prendere una decisione. Pena perdere i contributi non solo per lo stabilimento di Napoli, ma anche la possibilità di dirottarli alle altre sedi sul territorio nazionale.
Durante l’incontro al Mise, presenti i rappresentanti italiani dell’azienda e i sindacati, Di Maio si sarebbe dimostrato irremovibile e avrebbe tuonato nei confronti del delegato nel nostro Paese di Whirlpool, Luigi La Morgia, e degli altri manager definendoli «poco credibili» e chiedendo di confrontarsi con la direzione statunitense.
Secondo il ministero sarebbero 35 i milioni stanziati per incentivi e sgravi per i lavoratori di cui dovrebbe godere l’azienda (solo 25 secondo i sindacati): a Napoli ne dovrebbero arrivare 8. Di Maio però, in caso di chiusura dello stabilimento partenopeo, minaccia di bloccare non solo quelli destinati allo stesso sito, ma anche i 14 che sarebbero andati alla fabbrica di lavatrici delle Marche (gli altri 3 sono destinati a impianti più piccoli).
Soltanto otto mesi fa era stato chiuso un accordo in cui l’azienda si impegnava a non procedere con gli esuberi fino al completamento di un piano aziendale nel 2021, con investimenti consistenti nei vari siti del nostro Paese. Inoltre, era stato programmato il rientro di parti della produzione di lavatrici e lava-asciuga dalla Polonia all’Italia. Ora, il cambio di rotta.
Open ha chiesto a Guglielmo Epifani, sindacalista, ex segretario della CGIL e del Partito Democratico e parlamentare di Leu, che era presente ieri 4 giugno al tavolo al Mise, come si è svolto l’incontro e quali potrebbero essere le soluzioni alla vertenza.
Si parla di un Di Maio molto irritato.
«Questi tavoli, a differenza di quelli dei miei tempi, sembrano fatti più per l’esterno che per risolvere i problemi. Di Maio era irritato perché c’era stato un accordo qualche mese fa. E l’azienda era imbarazzata nello spiegare perché vuole chiudere o comunque riconvertire lo stabilimento, perché non ha saputo dire con precisione cosa è successo in questi mesi per cambiare posizione. Quindi l’incontro si è svolto in questa forbice: l’irritazione del ministro per l’impegno disatteso e la non capacità dell’azienda di fornire delle risposte».
Quindi però soltanto qualcosa di più mirato a un fine comunicativo?
«Sì, nello spirito di quello che le dicevo prima, cioè di un incontro più con finalità d’immagine che altro, si è soltanto rinviato, ma senza avere un percorso, senza avere un tracciato è stato un incontro un po’ così, che lascia il tempo che trova».
Quello di Di Maio è stato definito un ultimatum
«È un ultimatum che regge, che funziona? Cioè la minacce di dire “io di blocco le risorse ” è una minaccia che funziona con una multinazionale che può mettere in campo risorse enormi per ammortizzatori e questioni sociali? Su questo ho dei dubbi. E poi la stessa minaccia può valere per gli stabilimenti che restano aperti?»
Può farlo il ministero?
«Si tratta di capire cosa sì e cosa no. E poi soprattutto se lo può fare dove invece gli impegni presi vanno avanti. Io non so, io capisco l’irritazione, capisco la logica però non vorrei che alla fine, soprattutto di fronte a una multinazionale, si trattasse di un’arma spuntata. Parliamoci chiaro, ci fossero sostegni di miliardi di euro, di centinaia di milioni di euro capirei, ma qui parliamo di 20, 8, 5 milioni. Non so, sono molto dubbioso».
Cosa andava fatto invece secondo lei?
«Proseguire un confronto seppure in chiave tecnica, ma non è stato neanche tentato. La riunione si è chiusa con Di Maio che ha detto “rifletteteci” e quelli se ne sono andati e quello che succederà non lo sa nessuno».
Di Maio ha detto che i responsabili italiani della Whirlpool non sono affidabili e che lui vuole parlare con i vertici statunitensi.
«L’azienda su un punto è stata chiara: a domanda, ha risposto che la posizione scelta non è stata presa dai manager italiani dell’azienda. È una grande multinazionale con ramificazioni a tutti i livelli. È giusto che Di Maio voglia parlare con i vertici americani, però ho dei dubbi dal punto di vista dell’efficacia: quello che è stato detto dall’amministratore delegato di Whirlpool Italia è “non crediate che sia una scelta mia”».
Può essere una mossa di Di Maio per uscire dall’impasse post elezioni europee?
«Sicuramente è un tentativo di uscire dalle difficoltà. Certo, ha colpito anche me vedere gli operai sotto al ministero che inneggiavano a Di Maio. Di solito, in altri tempi, si inneggiava ai sindacalisti che vincevano le battaglie. Il problema è poi se si ottiene un risultato o meno. Se poi i risultati non arrivano, quelli che oggi inneggiano a Di Maio è facile che domani votino Salvini».
Secondo lei l’azienda ha già deciso di chiudere?
«Se sono arrivati a questa conclusione, la situazione secondo me è abbastanza compromessa. Però bisogna lavorare su cosa li può far tornare indietro. Non so se sono solo minacce. Questo è il punto interrogativo che ho».
Whirlpool dice che lo stabilimento di Napoli non è sostenibile.
«Loro dicono che, per ragioni di mercato, quello che produce Napoli non va bene. Soprattutto per i mercati di sbocco, Sudamerica ed altri. Ora, non è strano che in pochi mesi si scopra questo? Quando le dicevo che non sono stati chiari è su questo punto. Cosa è cambiato dall’accordo che diceva altre cose a questa decisione. Perché girano voci che dopo Napoli potrebbe toccare a Siena? Che cosa sta succedendo? Ecco, questo è il punto. Il confronto va portato sul piano della realtà delle cose: provare a capire cosa è cambiato e perché l’azienda fa delle scelte diverse da quelle che tempo fa aveva giurato e spergiurato di fare».
Se i 5 milioni, o 8 che siano, non li persuaderanno, cosa si potrebbe fare?
«Ci vorrebbe un’offensiva di carattere un po’ più generale e soprattutto entrare nel merito delle difficoltà e vedere in che modo il governo può aiutare l’azienda a superare le difficoltà. Cioè capire dall’interno cosa è successo e non proiettarsi, come dicevo, soltanto all’esterno. Perché decidono di portare in Polonia ciò che otto mesi fa avevano deciso di fare a Napoli? Perché adesso? Queste sono le cose che, in un confronto vero, andrebbero chiarite».